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03 Luglio 2019 | Approfondimenti tecnici

Le potenzialità e i limiti del patto di prova

L’inserimento di elementi accessori al contratto di lavoro subordinato consente alle parti di costruire un contratto taylor made, ossia ritagliato su misura in modo tale da rispecchiare perfettamente le specifiche esigenze sia del datore che del lavoratore; ciò nella consapevolezza che per la buona riuscita del rapporto di lavoro è necessario superare la rigidità dei format e “scendere” a trattative su vari aspetti suscettibili di personalizzazione.

Una delle clausole accessorie in cui più frequentemente ci si imbatte è il patto di prova, ossia quella particolare condizione sospensiva della stabilità del rapporto di lavoro che l’art. 2096 c.c. consente alle parti di apporre; nulla vieta che il contratto di lavoro si instauri e sia già, dal suo primo giorno di decorrenza, definitivo. Va da sé che qualora le parti non recedano una volta scaduto il periodo di prova, il rapporto prosegue di fatto e l’assunzione è considerata definitiva sin dalla stipula del contratto.

Il patto di prova richiede la forma scritta ad substantiam, mentre dal punto di vista della durata massima la normativa la fissa in 6 mesi per tutti i lavoratori (art. 10, L. n. 604/1966), ma sono i contratti collettivi nazionali di lavoro a entrare nel dettaglio della durata della prova e a definirla a seconda dell’inquadramento del lavoratore. È solo il caso di accennare che, fermo restando la possibilità che il lavoratore sia confermato anticipatamente previo suo consenso, sarebbe addirittura possibile applicare periodi di prova più lunghi di quelli previsti dal CCNL e dalla legge, quando tale possibilità sia stabilita da un contratto collettivo di prossimità (art. 8, D.L. n. 138/2011).

L’obiettivo della prova è quello di consentire, da un lato al lavoratore di valutare l’esperienza lavorativa offerta, e dall’altro al datore di valutare le competenze e le effettive capacità del prestatore nonché la sua attitudine a ben integrarsi nel contesto produttivo e con i colleghi. Ciò che spesso si dimentica è che il periodo di prova non ha finalità formative come può essere per il contratto di apprendistato o per il tirocinio; ciò significa che la prova non serve per far acquisire conoscenze o competenze al lavoratore, bensì funge semplicemente da esperimento per entrambe le parti.

Vista la finalità della prova, è facile comprendere perché l’ordinamento legittimi un solo periodo di prova tra le medesime parti, determinando l’illegittimità della prova quando tra queste sia già intercorso, per le medesime mansioni, un precedente rapporto di lavoro. Si presti attenzione al fatto che tale preclusione potrebbe operare anche in presenza di precedenti periodi di tirocinio durante i quali il tirocinante abbia svolto le mansioni poi oggetto del contratto di lavoro, o in presenza di precedenti periodi di distacco o in somministrazione presso lo stesso datore di lavoro.

Durante, poi, lo svolgimento del periodo di prova ciò che rileva maggiormente è l’effettività della prova, riscontrabile qualora ci sia una reale corrispondenza tra le mansioni attribuite al lavoratore da contratto e quelle da lui concretamente svolte; è quindi fondamentale che le mansioni siano sufficientemente determinate o in ogni caso determinabili e pertanto non è considerato valido il generico riferimento ad un livello del CCNL se il livello collettivo indicato ricomprende diversi profili professionali.

Alla luce del fatto che il periodo di prova consente ad entrambe le parti di valutarsi reciprocamente al fine di decidere se proseguire o meno il rapporto in maniera definitiva, è comprensibile il fatto che sia volontà delle parti inserirlo quasi sempre. A ciò si aggiunga il fatto che l’istituto prevede il recesso c.d. ad nutum, ossia la possibilità che entrambe le parti recedano liberamente senza che siano necessari la forma scritta, il preavviso o un’indennità (salvo il TFR maturato nel periodo in cui il rapporto ha avuto corso). Inoltre, non è di poco conto il fatto che il recesso non richieda la motivazione a meno che questa non sia imposta a tutela del lavoratore, dalla contrattazione collettiva; in tale ultimo caso la motivazione serve per scongiurare che il recesso sia dovuto a ragioni illecite, discriminatorie, o comunque estranee al rapporto di lavoro. Trattasi dunque di una facoltà rilevante e interessante da entrambi i punti di vista, sia quello del datore di lavoro che del lavoratore; essi sono infatti liberi di non proseguire il rapporto sia alla scadenza del periodo di prova pattuito che durante la prova medesima, salvo pattuizione nel contratto di una durata minima garantita.

Tutto ciò fermo restando che il recesso deve risultare coerente con la causa del contratto; il rischio nel caso non lo sia da parte del datore di lavoro è che il recesso venga impugnato dal lavoratore facendo valere:

•    motivo illecito o discriminatorio (esempio: mansioni incompatibili con lo stato di invalidità);

•    mancato svolgimento dell’esperimento pattuito (esempi: inadeguatezza della durata della prova, omessa concreta attribuzione delle mansioni, verifica della condotta su mansioni differenti da quelle indicate in contratto, e così via).

A tal proposito, viene in rilievo l’importanza di una precisa e dettagliata job description: da una parte, essa può rendere per ambo le parti effettivamente possibile ed efficace l’esperimento della prova poiché il lavoratore è messo nella condizione di sapere esattamente cosa dovrà fare e su cosa verrà valutato ed il datore di lavoro è consapevole dei limiti dell’esame a cui ha sottoposto lavoratore. Dall’altra parte però la job description potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio in quanto potrebbe essere sfruttata dal lavoratore per dimostrare la non effettività del periodo di prova e quindi l’illegittimità del recesso.

di Emiliana Maria Dal Bon – consulente del lavoro