Indennità sostitutiva del preavviso, requisito assicurativo e indennità di disoccupazione.
La nota dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro n.5186/2021. Licenziamento o ammortizzatori?
Con sentenza n. 17606 del 21 giugno 2021 la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla rilevanza previdenziale dell’indennità sostitutiva del preavviso non lavorato, ai fini del raggiungimento del requisito dei due anni di iscrizione nell’AGO (Assicurazione Generale Obbligatoria).
Si ricorda come, normalmente, la parte che recede dal rapporto di lavoro deve rispettare un periodo di preavviso come previsto dall’art. 2118 del codice civile, identificato da un lasso di tempo che va dalla comunicazione di recesso al momento di efficacia dello stesso.
Durante questo periodo la prestazione lavorativa, di norma, viene regolarmente eseguita ma, per volontà di una delle parti o per impossibilità di svolgere il periodo di preavviso, la parte che recede senza rispettarlo è tenuta ad indennizzare l’altra parte per il tramite di un’indennità sostitutiva del periodo stesso.
Appare utile precisare come l’indennità sostitutiva del preavviso o il periodo goduto di preavviso, per quanto siano volti a limitare gli effetti negativi sul dipendente di una cessazione immediata del rapporto di lavoro, devono essere garantiti a prescindere, anche ove il lavoratore risulti già rioccupato in altra azienda (ad esempio dal giorno successivo alla cessazione del rapporto).
Requisiti previsti per l’indennità di disoccupazione
In via preliminare, la sentenza citata si riferisce ad una prestazione economica ad oggi superata, c.d. ASpI (Assicurazione Sociale per l’Impiego), introdotta dalla Legge 92/2012 ed avente la funzione di fornire ai lavoratori che avessero perduto involontariamente la propria occupazione un’indennità mensile di disoccupazione.
I requisiti individuati dalla legge sopra richiamata, necessari al fine di poter beneficiare di tale indennità consistevano:
- nell’aver involontariamente perso la propria occupazione;
- nel trovarsi in stato di disoccupazione;
- nel poter vantare almeno due anni di assicurazione e almeno un anno di contribuzione nel biennio precedente l’inizio del periodo di disoccupazione.
Il fatto
La controversia è sorta dopo che un lavoratore, a seguito della cessazione del rapporto di lavoro, aveva avanzato richiesta di corresponsione dell’indennità di disoccupazione all’INPS, il quale aveva provveduto a rigettare la domanda in quanto, a proprie dire, non risultava soddisfatto il requisito contributivo minimo e di iscrizione all’AGO contro la disoccupazione involontaria.
Quanto sopra proprio in considerazione del mancato computo di n. 5 settimane relative all’indennità sostitutiva del preavviso, circostanza ostativa al raggiungimento dei requisiti previsti per poter beneficiare dell’indennità di disoccupazione (ASpI).
La posizione presa dall’INPS veniva poi confermata dalla Corte d’Appello dell’Aquila con sentenza successivamente impugnata dal lavoratore.
Due i motivi principali per i quali il lavoratore ha deciso di presentare ricorso alla Corte di Cassazione:
- vizio di motivazione della sentenza impugnata, rinvenibile nella circostanza in ordine alla quale la Corte d’Appello dell’Aquila avrebbe trascurato che il periodo di preavviso era stato compensato e che i contributi sulle relative somme erano stati corrisposti;
- l’aver ritenuto che il periodo di preavviso corrisposto non potesse essere computato ai fini del raggiungimento del requisito contributivo;
La pronuncia della Corte di Cassazione
Nel ricordare la piena autonomia del rapporto previdenziale rispetto a quello lavorativo e la natura meramente obbligatoria del preavviso, la Corte sottolinea anzitutto come la cessazione immediata del rapporto di lavoro non sia idonea a comportare automaticamente l’irrilevanza del periodo di preavviso sotto il profilo previdenziale.
Ad opinione dei magistrati vi sarebbero 2 circostanze utili a ritenere che il periodo di preavviso, non lavorato, possa acquisire una determinata rilevanza dal punto di vista previdenziale:
- l’indennità sostitutiva del preavviso subisce contribuzione dal datore di lavoro, il quale si fa carico dell’obbligazione contributiva.
- l’indennità sostitutiva del preavviso costituisce reddito imponibile ai fini previdenziali, ragione per cui il calcolo e la corresponsione del trattamento pensionistico goduto prendono in considerazione la somma di indennità sostitutiva del preavviso percepita dal lavoratore.
Pertanto, seguendo e facendo proprio tale ragionamento, la Corte giunge a sostenere, quasi per analogia, che se è vero che l’indennità sostitutiva del preavviso è sottoposta a contribuzione utile a determinare la base pensionabile, è altresì vero e logico affermare che l’arco temporale nel quale si colloca il preavviso debba essere utilmente considerato al fine del raggiungimento del requisito richiesto per la corresponsione dell’indennità di disoccupazione.
Appare a questo punto utile ricordare quanto già riportato in premessa, ossia che la sentenza in esame tratta di un’indennità, l’ASpI, ad oggi sostituita da una diversa prestazione economica volta a tutelare coloro che perdono involontariamente la propria occupazione.
L’articolo 1 del D.lgs. n°22 del 4 marzo 2015 ha, come noto, istituito la “Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego” (c.d. NASpI), per gli eventi di disoccupazione involontaria che si verifichino a decorrere dal 1° maggio 2015.
La NASpI prevede che debbano essere soddisfatti congiuntamente i seguenti requisiti:
- stato di disoccupazione involontaria
- almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione
- 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione.
Sebbene i requisiti sopra elencati siano diversi rispetto alla prestazione prevista in precedenza e oggetto della sentenza qui esaminata, si ritiene che la stessa possa avere riflessi anche sull’eventuale verifica, da parte dell’INPS e dei tribunali, circa il raggiungimento dei requisiti contributivi in caso di corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso.
Casi in cui è dovuta l’indennità sostitutiva del preavviso
Vi sono infine alcune situazioni ove il datore di lavoro è tenuto, non potendo fare altrimenti, a corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso. Parliamo di quelle situazioni dove la prestazione lavorativa è divenuta impossibile da richiedere; si tratta a titolo esemplificativo dei casi di decesso del lavoratore, di dimissioni per giusta causa, di risoluzione per fallimento o di licenziamento con preavviso ove poi il giudice avesse ritenuto di convertirlo in licenziamento con preavviso lavorato.
In tutti questi casi il datore di lavoro si trova costretto al versamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, non potendo adibire il lavoratore alla prestazione lavorativa e di conseguenza godere del periodo di preavviso.
Calcolo dell’indennità sostitutiva del preavviso
L’indennità sostitutiva, in quanto tale, dovrà essere calcolata sulla retribuzione che normalmente sarebbe spettata al lavoratore per quel periodo. Dovrà tenersi quindi conto di eventuali provvigioni, premi di produzione, e dei ratei di mensilità aggiuntive.
Su quest’ultimo punto risulta di fondamentale importanza verificare attentamente quanto spettante effettivamente al lavoratore. In un licenziamento con preavviso, sarà necessario verificare quanto viene disciplinato dal CCNL applicato al rapporto in merito al periodo di preavviso ed alle modalità di calcolo dello stesso, oltre che la precisa decorrenza dell’indennità.
Ad esempio, in molti CCNL viene prevista la maturazione dei ratei di 13° e 14° mensilità solo per periodi di lavoro superiori a quindici giornate. Ipoteticamente quindi a fronte di un preavviso di tre settimane a cavallo tra due mensilità, potremmo avere la maturazione (e liquidazione) solo di un rateo di mensilità aggiuntive, non maturando il rateo del secondo mese.
E come se non bastasse… arriva l’Ispettorato Nazionale del lavoro.
Il tema del preavviso, sia esso indennitario che lavorato, è chiaramente legato alla risoluzione del rapporto di lavoro che, complice la fine (diremo incerta) del divieto di recesso imposto dalla legislazione emergenziale per le aziende industriali non rientranti nel settore tessile o affini (determinazioni aggiunte dal recente D.L. n.99/2021 in corso di rapida conversione in legge nell’ambito della più importante discussione sul decreto sostegni bis), sembra sia stato sdoganato.
In tal senso, in effetti, anche l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, quale player del recesso per giustificato motivo oggettivo nell’ambito di paventati licenziamenti oggetto di iniziale richiesta di conciliazione, ex art 7 L. n.604/1966 introdotta dalla c.d. riforma Fornero (L. 92/2012), si è accorto della scomparsa del divieto.
Ed è proprio con la nota del 19 luglio 2021 avente n. 5186/2021 che l’Ispettorato ha diffuso un modello specifico da utilizzare per la riattivazione delle procedure previste dall’articolo 7 già citato da parte delle imprese per le quali è venuto meno il divieto di licenziamento.
Ciò che però lascia un po’ stupiti, è un particolare della nota in parola, la quale sembra enunciare un principio dogmatico, già commentato (tra le altre cose) da molti interpreti del settore e dato come assodato (erroneamente). Il passaggio è letteralmente il seguente:
“L’eventuale presentazione di domanda di cassa integrazione ai sensi degli articoli 40, comma 3, e 40 bis, comma 1, successivamente alla definizione delle procedure ex art. 7 della legge 604/1966, sarà valutata ai fini della programmazione delle attività di vigilanza connesse alla fruizione degli ammortizzatori sociali”.
Volendo banalizzare, il significato potrebbe essere il seguente.
Dato che i divieti di licenziamento per le aziende industriali (si ribadisce, società diverse da quelle di cui all’art 4 comma 2 del D.L. n.99/2021) si estendono a quelle realtà che intendono godere di ammortizzatori sociali ordinari e/o straordinari (senza contribuzione addizionale, come disposto dal D.L. n,. 73/2021) o, in mancanza dei presupposti, dell’ammortizzatore derogatorio di cui all’art 40 bis del predetto D.L. n.99/2021 (della durata di 13 settimane), alla richiesta di conciliazione di cui all’art 7 della l. n.604/1966 non deve seguire una successiva richiesta di ammortizzatori sociali, pena la loro inammissibilità (come riportano molte fonti informative. In realtà l’Ispettorato cita unicamente un controllo ispettivo che, certamente, bene non fa presagire).
Chi scrive, mestamente, deve però prendere atto di come ancora una volta si supponga come la norma di legge soccomba alla sua interpretazione (peraltro incondivisibile anche se, forse, dotata di buon senso). Nello specifico:
– Le previsioni normative di cui ai D.L. 73/2021 e D.L. n. 99/2021 (nonché le possibili, ad ora, conversioni in legge) non sembrano escludere l’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo e successivamente la richiesta di ammortizzatori sociali che, per quanto al decreto legge del 30 giugno, non sembrano avere particolari caratteristiche per la loro approvazione (in quanto derogatori);
– Forse sarà bene da comprendere cosa si volesse intendere con la previsione, presente in ogni norma prima citata, a merito della quale il divieto di licenziamento, in caso di richiesta di ammortizzatori, si estenda “per la durata del trattamento di integrazione salariale fruito entro il 31 dicembre 2021”.
Di certo, se si volesse assumere tale locuzione come “durante la fruizione non si può licenziare”, bisognerebbe rivedere pacificamente il testo letterale del disposto, che non consente una lettura di tal fatta.
Di converso, accettando tale visione, è ben dunque possibile, in una linea temporale, il licenziamento e la successiva richiesta di ammortizzatori.
Perché dunque l’ammonimento dell’Ispettorato?
Presto detto: forse, in Italia, culturalmente, vince il deterrente alla regola rispetto alla regola stessa.
Autore: Dott. Dario Ceccato